sabato 2 ottobre 2010
Trebisacce-02/10/2010: Divagazioni sul cibo.(di Gianni Mazzei)
Gianni Mazzei
Divagazioni sul cibo.
Se si va con la mente a periodi non lontani della nostra vita, gli anni cinquanta, anni difficili del dopoguerra quand’ancora c’era miseria e spesso per vivere si ricorreva al baratto, per la scarsità di moneta, ci viene in mente la frugalità, spesso l’indigenza di una cena o di un pranzo.
La famiglia, numerosa, era raccolta a tavola sulla quale c’era un solo piatto,grande, di “ cinque lire” si diceva al mio paese: e da quel piatto, pieno di legumi e pasta, con un brodo rosso, ognuno prendeva qualche cucchiaiata e intingeva pezzi di pane raffermo.
Non si era sazi nel corpo, se non qualche volta facendo qualche furberia, mangiando di nascosto quello che apparteneva alla famiglia e allora erano dolori; ma si era sazi ,perché si stava insieme, in un silenzio leggero che comunicava gesti e ritualità,valevole più di mille parole.
E ognuno di loro conservava il miglior boccone alla fine: quasi a suggello dell’essere stati insieme e a puntello gioioso, in quell’assaporare la parte migliore del pranzo, della fame sempre presente, ma che così diventava attutita nel gusto che ti restava dentro, e non solo nella bocca.
Mi sono sempre chiesto, nella distinzione operata tra società opulenta e tecnologica e patriarcale e affamata, che valore potesse avere il cibo, soddisfarne il bisogno e in che modo incideva nel carattere e nell’intraprendenza della collettività e del singolo.
Certo, escludo l’indigenza più netta che porta a vivere alla giornata, all’hic et nunc, senza progettare niente.
Dice un sociologo a questo proposito, parlando dei popoli del terzo mondo che in loro resta la povertà anche come orizzonte mentale: non sono in grado di rischiare nulla, anche un minimo residuo per migliorare, perché, al primo smacco, subentrerebbe delusione a delusione.
L’indigenza uccide l’anima e non è necessaria invocare “l’uomo è ciò che mangia”, per capirne l’importanza sociologica e politica.
E solo perché c’è l’indigenza, il cibo, gestito con dittatoriale piglio, lenisce le pene del sopruso, della dignità calpestata e diventa modo per dominare poveri cristi,sia con panem et circenses sia con farina forca e festa.
C’è un lutto, un sapore di morte dell’abbondanza del cibo esibita per far dimenticare altra penuria, quella della mente e dello spirito.
Per cui resta sacrosanta la rivolta degli schiavi del bisogno con tutte le conseguenze per come pone Marx il problema. Sconfiggere l’indigenza ,e non solo materiale, è la conditio sine qua non dell’elevazione dello spirito.
L’aveva detto con estrema chiarezza quell’ingegno sempre valido (ora dimenticato,perché maestro di color che sanno: e chi sa in questo momento di abbandono?), nella Metafisica:” una volta appagata l’indigenza del bisogno, l’uomo si svolge a qualcosa di universale e di superiore”.
Ma la mia considerazione non tiene conto tanto dell’indigenza, quanto del rapporto tra fame, sazietà e ingordigia.
E questo trio non trova soluzione nel famoso detto “ in medium stat virtus”, anche se Aristotele lo considerava non in modo assoluto, ma relativo alle circostanze per cui, per esempio, la dieta di uno sportivo era altro di una persona sedentaria: la standardizzazione è solo nelle caserme e negli stati totalitari e in chi vende fumo e elisir di lunga vita per gli allocchi.
La sazietà non è il meglio rispetto alla fame e all’ingordigia : questo scopro ricordando i tempi descritti all’inizio. Anche se in quel momento della storia, avveniva più per necessità che per scelta.
E quello che dico non riguarda solo il corpo e la sua salute,stando a ciò che sostiene la scuola salertinana:” pone gulae metas, et sit tibi longior aetas ut medicus fatur: parcus de morte levatur”.
Se il corpo sta bene se non si sazia, ma si leva con un certo appetito da tavola, se la vita si allunga non affaticando il corpo con cibo abbondante più del necessario (Epicuro docet) è l’anima che capisce l’importanza del non saziarsi per non vivere sugli allori, per non perire per inettitudine.
“Avere il grasso in canna” come dice un proverbio e “ impigrirsi per sazietà” come fa capire la lettura dei profeti biblici è la stessa sapienza, rapportata alle diverse culture: quella alta e quella subalterna.
L’esempio più illuminante a livello storico è la fame dei cristiani medioevali che sconfiggono,nella prima crociata, l’opulenza, in ogni senso, dei musulmani.
Ed era opulenza economica, era sazietà intellettuale dinnanzi alla fame, anche rude degli europei, che pensavano che la terra fosse piatta e che avevano,nella biblioteca vaticana solo quattromila volumi, rispetto ai settantamila della biblioteca di Alessandria.
Uno scontro che non è isolato,se già Hegel, nelle “lezioni sulla filosofia della storia”, instaura un parallelo tra altra sazietà, quella troiana, e altra fame e appetito, quello degli Achei che risultano vincenti nello scontro.
La sazietà abbaglia e nella ricchezza del sapere blocca, come può bloccare il mito, un modello o la storia monumentale di cui parla Nietzsche: conosco amici di grande spessore culturale, di grande apertura mentale, con grandi potenzialità anche di scrittura che dicono: scrivere un romanzo? Ma cosa sarebbe dinnanzi a Proust o Kafka?
Scrivere poesia? Ma ha già detto l’indicibile Dante o Omero!
Manca loro quella curiosità della ricerca, resta loro il gusto del possesso,che porta alla pigrizia e a non avere quei lampi di genio, proprio di chi sa si non sapere.
La sazietà umana viene ben descritta nella Bibbia allorché si dice che le cose profonde sono nascoste ai sapienti e rivelate agli umili di cuore!.
Se vale dunque la fame, la manchevolezza rispetto alla sazietà( sia a livello psicologico che sociologico, sia per il singolo che per la collettività) a maggior ragione resta distruttiva l’ingordigia.
Che non è avere fame e mangiare in modo insaziabile: ma mangiare senza senso. Che diventa vizio, gratuità,stupidità,ostentazione come le crapule dei Romani sdraiati sul triclinum a ingozzarsi e poi vomitare per mangiare ancora.
Il genio, rispetto a noi, risulta insaziabile,ingordo: così un Cesare o un Dante o un Einstein: la loro mente è smisuratamente dilatata per cui il cibo da prendere è smisuratamente superiore alla nostra portata e anche immaginazione.
Ma ha un senso in loro: come mangiare fisicamente corrisponde, se si vuole stare in salute, in regole che riguardano la quantità, la qualità e la diversità del cibo, così,avviene per i geni che hanno loro regole interne a cui si attengono in modo rigoroso.
La libertà è rigore e a maggior ragione nelle menti superiori.
Ma qualcuno può stravolgere le regole e agire in modo arbitrario: se il Rubicone, oltrepassato da Cesare, è una necessità storica, dettata dal destino, la spedizione di Napoleone in Russia è l’ingordigia di chi ormai è fuori dal solco della storia.
Cesare vince pur se ucciso dai congiurati e resta un unicum come dice Mommsen; Napoleone perde e perde il senso profondo della rivoluzione di cui diceva di essere figlio.
Gianni mazzei
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