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domenica 13 novembre 2011

Trebisacce-13/11/2011:Il documentario di Pippo Franco “A filìcia puamma”


Giuseppe Franco

Il documentario di Pippo Franco “A filìcia puamma”

Franco Lofrano

“A filìcia puamma”, ossia “La sposa felice”, è il titolo dato al recente video-documento di Pippo Franco che ha ripercorso gli usi, i costumi e la conservazione della memoria sul tipico matrimonio albidonese. Grazie alla passione del nostro regista, originario di Oriolo e residente a Trebisacce, vengono recuperate le nostre memorie. Oltre alla passione, Giuseppe Franco, “Pippo” per gli amici, lavora con apprezzabile competenza; i suoi precedenti documentari, sempre in Dvd, riguardano il lavoro dei pastori di Albidona e dei pescatori di Trebisacce; hanno già riscosso il giudizio positivo della critica, ma sono stati calorosamente accolti dalla gente, che è l’unica depositaria delle tradizioni popolari. In questo suo ultimo lavoro, ancora fresco, si raccontano i vecchi rituali nuziali di Albidona. Giuseppe Franco, nello scorso agosto 2011 ha saputo che una coppia di giovani albidonesi, Francesco e Caterina, volevano sposarsi all’insegna della tradizione, e hanno gentilmente permesso al regista di documentare tutte le fasi della loro settimana nuziale. Ma le nitidissime immagini di Pippo sono state corredate con una lunga discussione-intervista di Giuseppe Rizzo, di Albidona, il quale si interessa, da tempo, di storia e di tradizioni popolari nell’Alto Jonio. Dalle informazioni di Rizzo emerge che il matrimonio è sempre stato un vero e proprio contratto economico; la preparazione del rito è lunga e passa attraverso fasi obbligatorie di un’intera settimana. Ma la tradizione più antica vede come protagonista “u mmasciatore”, cioè una persona seria e affidabile che deve portare la proposta alla famiglia della futura sposa. Una volta, la richiesta del fidanzamento si faceva con un ceppo che durante la notte si poneva all’ingresso dell’abitazione della ragazza. Se il ceppo veniva trovato allontanato dalla porta della sposa, significava che la proposta di matrimonio era rifiutata. Se invece veniva portato dentro la casa, il sì dei genitori della ragazza era ormai scontato !
Compiuti i patti per la dote, si giunge al matrimonio. Entrano in scena ben quattro donne (i fièmmene’i ricedènn): due comari di battesimo e di cresima per lo sposo e due per la sposa, mandate per il paese a invitare le famiglie, annunciando con nome, cognome e anche il soprannome della famiglia degli sposi. Le signore “i recedènn” devono essere avvenenti, elegantemente vestite, cortesi e cordiali. L’ingresso presso le varie famiglie avviene con impeccabile gentilezza; allo stesso modo le famiglie accolgono le “comari” degli inviti. La padrona di casa, dopo avere steso sulle sedie un fazzoletto bianco, in segno di rispetto, le invita ad accomodarsi e a fare anche una piccola colazione. Dopo il lunedì si fanno le infornate del pane, giovedì si grattugia il formaggio e si trasportano i panni, sabato si fa la “chiànca”, cioè la macellazione degli animali. Domenica, il matrimonio in chiesa; dopo il rito nuziale, ecco il grande convito (u mmìte), con la minestra di carne, patate e cappuccio, e i maccheroni, cotti in due grandi caldaie collocate fuori, nel vicolo del vicinato. I convitati vengono fatti accomodare attorno a tavoloni da muratori e sono serviti con un grande piatto di terracotta, dove possono mangiare cinque persone, ma ognuno deve portarsi le posate, e le deve conservare in tasca. Subito dopo, balli, suoni e bellissimi canti nuziali. Racconta l’attento ricercatore Rizzo che queste tradizioni nuziali trovano la loro origine negli antichi Greci e Romani; il poeta latino Caio Valerio Catullo compose i famosi Carmina (o Epitalami), noi li chiamiamo … i canzùni d’a zita che si ascoltano ancora oggi, insieme al suono della zampogna a chiave, il tamburello, o la fisarmonica, durante l’accompagnamento degli sposi e attorno al letto nuziale. Giovani e meno giovani danzano l’intramontabile ‘tarantella’ calabrese. Nei canti, la sposa viene paragonata ad una bella palma e a una foglia di maggiorana, destinata a lasciare la casa materna per seguire ovunque lo sposo; è un triste distacco, perché la giovane ha pure l’obbligo di adeguarsi agli usi e alle tradizioni della comunità o della nuova dimora decisa da suo marito. Rizzo mostra un vecchio documento, uno dei famosi “capitoli”, che riguarda il contratto di matrimonio di inizio ‘900; ecco alcuni pezzi della dote e il valore in soldi: mantello (100 lire), 4 mutande (400), una bisaccia, calzetti,fazzoletti, il granaio, una scure e anche un vomere. Il corredo (i panni) veniva trasferito nella nuova abitazione degli sposi il giovedì precedente le nozze. Originale anche il rito della preparazione del letto nuziale, sul quale i parenti pongono delle banconote che fermano con dei confetti in segno di augurio. E’ tradizione che i bambini salgano sul letto e vi saltellino, per simboleggiare l’innocenza e la fertilità degli sposi. Dal balcone, o comunque fuori e all’aperto, vengono sparati colpi di fucile per fugare il male dalla giovane coppia. Poi, niente confusione: c’è il maestro di ballo; la sposa è chiamata a compiere il suo giro di danza, e piovono soldi sul suo capo, da parte dei parenti dello sposo; segue il ballo dello sposo, che riceve i soldi dei parenti della sua amata. Terminati i due giri, il maestro di ballo emette “l’ardua sentenza”: “lo sposo ha portato tanti soldi e la sposa tanto !”, e qui scatta l’orgoglio della famiglia che ha contribuito di più.
Nel video di Pippo Franco, più di un passaggio è dedicato al tradizionale abito albidonese indossato dalla signora Caterina Rescia, conosciuta nell’ambiente come “Caterina a Crusch” , che è l’unica anziana a indossare ancora la bellissima “giachetta” di panno e castoro, il bianco “maccatùro” sul capo e l’elegantissima veste a pieghe. Il bel video-documentario è stato realizzato a quattro mani, dai coniugi Giuseppe Franco e Angela Fasanella: merita di essere visto perché regala alla nostra memoria una ricca e inedita documentazione storica.

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